Storia del museo del sale
Museo del sale
Il museo del sale, in contrada Nubia, comune di Paceco (TP), nasce per volontà del suo proprietario, Alberto Culcasi, grazie ai finanziamenti dell'azienda provinciale per il turismo di Trapani e del comune di Paceco e con la collaborazione delle facoltà di Lettere e Architettura dell'Università di Palermo. Inserito nella guida ufficiale dell'Unione europea dedicata ai musei del Mediterraneo, è posto lungo l'itinerario denominato la Via del Sale, un progetto turistico-culturale nato con l'intento di valorizzare quel particolare ambiente umido che caratterizza con le saline e i mulini la zona costiera della Sicilia occidentale. Posto all'interno di un baglio, un'antica fattoria-fortezza del Seicento adibita alla molitura del sale, con il grande mulino a vento annesso, il museo raccoglie e conserva gli antichi strumenti di lavoro dei salinari e tante vecchie foto in bianco e nero, testimonianza di un lavoro che con i tempi si è anch'esso adeguato alle nuove tecnologie. Al suo interno tra le mura di pietra, i pavimento in cotto e le antiche porte dipinte, è possibile ammirare in esposizione reperti originali accompagnati da numerose schede ricche di informazioni e pannelli di ricostruzione per fasi del ciclo lavorativo: i vecchi ruzzoli per compattare il fondo delle saline, i cattedri ovvero le ceste per trasportare il sale, le pale di legno dei mulini (ntinni), la spira o vite d'Archimede per aspirare l'acqua della vasca detta "fridda", i listelli di legno (tagghia) per misurare il sale, i sacchi di iuta, il carro-botte che attaccato al mulo faceva la spola tra una vasca e l'altra per dissetare i salinari, la pesante macina che consentiva di raffinare il sale, le reti e le nasse, dal momento che nelle vasche delle saline si allevano pesci pregiati come le orate e le spigole. Arnesi di lavoro oggi in disuso e che ora costituiscono un relitto di archeologia industriale.
Cenni storici
La storia delle saline trapanesi è antichissima e si fa risalire probabilmente al popolo dei Fenici circa tremila anni fa. L’origine non è certa in quanto mancano testimonianze materiali, tuttavia è lo stesso paesaggio fenicio a suggerirci che la produzione e commercializzazione del sale fu una componente fondamentale della loro economia, dal momento che i loro insediamenti furono realizzati lungo le zone costiere sia in Oriente che in Occidente e in particolare in questo estremo lembo della Sicilia. Per buona parte del primo millennio a.C. questo antico e glorioso popolo di commercianti e navigatori deteneva il monopolio dell’oro bianco, ritenuto indispensabile sia come integratore alimentare sia nei processi di conservazione del pescato (pesce azzurro: sgombro e tonno, pescato nel mare circostante l’isola di Favignana dinanzi a Trapani) e delle carni o della concia delle pelli. La prima vera testimonianza di una salina a Trapani si ha grazie al geografo arabo Al-Abu ‘ Abd Allah Muhammad, maggiormente noto come Idrisi o Edrisi, che nel suo “Libro per lo svago di chi ama percorrere le regioni”, scritto per il re normanno Ruggero II nel 1154, racconta: “Proprio davanti alla porta della città si trova una salina…”. Per secoli le saline furono il biglietto da visita che consentì a Trapani di farsi conoscere in tutta Europa, costituì il suo vanto, l’orgoglio di un territorio naturalmente idoneo alla coltura del sale grazie a un clima favorevole caratterizzato da una forte irradiazione solare e frequente ventilazione, da scarse piogge e infine da un mare, il Mediterraneo, ad alto grado di salinità. Le saline crebbero facilmente prendendo il nome del suo fondatore e proprietario e dal luogo in cui erano ubicate. Nel 1346 i re Alfonso e Ferdinando d’Aragona firmarono il primo atto di concessione per lo sfruttamento delle saline a un privato, il medico Roberto de Naso per essersi impegnato attivamente nella battaglia contro un’epidemia di peste che infuriò in quel periodo. Dal 1440 le saline di Trapani furono date in gabella e ciò consentì la nascita sul litorale trapanese di un numero elevato di saline, che si legò indissolubilmente allo sviluppo del porto di Trapani da cui partivano per le rotte europee le navi cariche del prezioso elemento. Le tecniche di coltivazione e raccolta rimasero immutate nel corso dei secoli, solo alla fine del Settecento i mulini a vento furono utilizzati anche per la macinazione oltre che per il tradizionale sollevamento delle acque marine mediante una grossa "vite di Archimede". Nel 1840 fu abolito definitivamente il dazio sul sale, gli affittuari liberatosi del pesante fardello cominciarono a investire sulle saline e a sostituirsi agli antichi proprietari nella conduzione dell’azienda salifera. L’apertura del canale di Suez nel 1869 favorì le rotte internazionali rendendo il porto di Trapani uno scalo privilegiato nel Mediterraneo, punto di partenza del commercio verso le Americhe delle risorse locali costituite oltre che dal sale anche dal vino, corallo e tonno. Il Novecento è il secolo della crisi che investì le saline. Lo scoppio delle guerre mondiali, il degrado del porto e la speculazione edilizia furono le cause della chiusura e abbandono di molte di esse. Il 1965 è ricordato infine per una grave alluvione che travolse e ricoprì di detriti le vasche di molte saline danneggiando irreparabilmente gli impianti e i macchinari. Dal 1991 tutta la zona delle saline di Trapani e Paceco è stata sottoposta a rigorosi vincoli paesaggistici con l’istituzione della Riserva naturale orientata, la cui gestione è dal 1995 di competenza del Wwf.
La salicoltura
Per la produzione del sale sono necessari pochi ma essenziali elementi naturali: l'acqua del mare, l'energia del vento, il calore del sole e scarsa piovosità. Elementi questi che certamente non mancano grazie alla natura che ha regalato a questa scheggia occidentale di Sicilia un clima ideale. La lavorazione del sale di principio è molto semplice: l'acqua di mare viene fatta convogliare a più riprese in apposite vasche, diverse per grandezza e profondità, e lasciata evaporare grazie all'azione associata del vento e del caldo, per poi essere raccolta dal fondo sotto forma di grossi cristalli di cloruro di sodio. Le vasche divise in cinque ordini misurano dai 30 ai 50 m di lato e ognuna di esse ha un nome e una funzione specifica: 10 fredda; 20 vasche o vasi d'acqua cruda o retrofredde; 30 vasche messaggere; 40 calde o vasche di acqua fatta; 50 caselle. Al primo ordine appartiene la "fridda" che è la prima vasca a ridosso della costa e in cui viene fatta entrare l'acqua del mare da un'apertura a ingresso libero provvista di cateratta a saracinesca e qui, grazie all'azione del sole e del mare, avviene la prima concentrazione. Questa prima vasca ha una superficie più grande delle altre, perché deve contenere tutta l'acqua che è necessaria alla salina per l'intera stagione. Quindi collegate alle vasche precedenti ci sono i "vasi d'acqua cruda" con una salinità maggiore acquisita con il travaso dalla "fridda". La frammentazione così come l'ampiezza e la profondità dei bacini sono estremamente importanti per l'evaporazione dell'acqua marina e la sua naturale trasformazione in cloruro di sodio. Attraverso un canale detto "d'acqua crura", l'acqua ad alta salinità giunge a quelle intermedie costituite dalle "ruffiane" dette anche "messaggere", e "ruffianeddre" ed infine ai vasi d'acqua fatta o "cauri" e alle "santine" dove l'acqua è per l'appunto fatta, cioè è vicina al punto di saturazione. Per ultimo si hanno le vasche salanti dette caselle o "caseddari" in cui si assiste alla finale evaporazione dell'acqua e alla cristallizzazione del sale che viene infine raccolto da una o due squadre di venti operai (venne), diretti e sorvegliati dal curatolo, e sistemato in cumuli (munzidduna) da 200 a 400 tonn. ricoperti di tegole di terracotta (ciaramire) sulle adiacenti piattaforme di terra (ariuni). I canali che intersecano tutta l'area delle saline sono numerosi e di varie grandezze: i più piccoli servono a mettere in comunicazione i diversi ordini di vasche, mentre in quelli di maggiore grandezza navigavano le grosse barche con vela e fiocco dette "schifazzi" per il trasporto del sale per mare e le "mociare" più piccole senza ponte e vela per trasportare il sale dalle saline al porto. Oggi molti di quegli attrezzi di lavoro utilizzati un tempo dai vecchi salinari sono in disuso e alcuni accuratamente conservati presso il Museo del Sale. La pala con cui si raccoglieva il sale dalle vasche è stato sostituito da un mezzo simile all'aratro, un nastro trasportatore viene oggi utilizzato al posto delle ceste di canna (cartedde) di 25 o 30 Kg. caricate un tempo sulle spalle degli uomini o in gobba ai muli, le pale dei mulini da pompe a gasolio o elettriche, mentre il fondo delle vasche è rullato da macchine schiaccia sassi al posto del rullo di legno o di pietra tirato a mano.
Mulini a vento
I mulini sono ingegnose macchine artigianali a pale che, ricoperte da tele e mosse dal gioco delle correnti aeree, venivano utilizzate un tempo per far salire l'acqua dalla vasca detta "fridda", tramite la spirale di Archimede, a quelle dette d'acqua cruda, oppure a far muovere le ruote di pietra destinate a frantumare e ridurre in polvere il sale marino. Sono di due tipi: il più antico detto "a stella" (mulinu a stidda) od olandese con pale della lunghezza di quattro metri circa che sfruttando l'energia eolica metteva in funzione la suddetta spira o vite d'Archimede, l'altro detto "all'americana" (mulinu mericanu) noto per le sue piccole palette metalliche lunghe un metro e venti centimetri ed era autodirezionale in funzione del vento. Il mulino a vento veniva costruito su un largo zoccolo parallelepipedo in muratura di m. 6 x 6 e alto intorno a 2 metri, su cui sorge la torre tronco-conica alta 6 o 7 metri coperta da un'armatura conica di legname foderata di zinco, la quale sostiene l'albero obliquo che porta le sei grandi pale trapezoidali coperte di tela da vele. Il movimento dell'asse verticale del mulino veniva trasformato in obliquo per la vite di Archimede mediante un altro ingranaggio ad angolo di legno o di ferro. Il mulino era capace di produrre a pieno regime di vento una potenza di cento cavalli sull'asse del rotismo. Il mulinaru era addetto alla manutenzione e al buon funzionamento dell'antico mulino a stella. A marzo arbulava u mulinu ovvero attaccava le pale di legno (ntinni) alla struttura, quindi lo mpaiava arrotolandovi le vele da una parte della pala, in attesa di mettere in funzione il mulino; ogni mattina infine ncucciava distendeva cioè le vele e al levarsi del vento orientava le pale (purtava u mulino a ventu). L'abilità del mulinaru consisteva nell'intuire il cambiamento di direzione del vento e di predisporre le pale di conseguenza, in modo da evitare danneggiamenti alle stesse. Quest'antica figura è andata scomparendo, con lo sparire degli antichi mulini. Alcuni di essi oggi restaurati o trasformati in museo, ricoprono l'importante ruolo di attrazione turistica nell'ambito del itinerario lungo la "Via del Sale" così chiamato perché congiunge le ventisette saline attive nei territori di Trapani, Paceco e Marsala e che esalta un ambiente ed un ecosistema protetto.